Il Teatro come creazione del possibile
Vorremmo iniziare con l’ individuare alcuni oggetti intorno ai quali crediamo di aver lavorato e grazie ai quali sono maturate le nostre idee.
Individuiamo nel cinema di Fabrizio Ferraro, di Arturo Lavorato e di Felice D’Agostino, in quello di Straub e Huillet, nell’anti-psichiatria di Deleuze e Foucault, in Artaud, alcuni dei luoghi dove più frequentemente ci siamo soffermati e che più di altri ci hanno aiutato a ricercare, esplorare e arare il campo del possibile.
Oggetti ovviamente diversi che hanno definito funzioni e relazioni differenti. Non solo, ma anche oggetti che non tutti hanno frequentato nella stessa misura, semplicemente perché non interessati. Questi sono, per quanto ci riguarda, solo alcuni dei giganti sulle cui spalle ci siamo appoggiati per provare a vedere cosa ci fosse dopo. Vedere l’invisibile è stato ed è il progetto di questo progetto. Niente di più, niente di meno.
Quella lista della spesa degli oggetti frequentati dice dell’eterogeneità e della complessità degli attraversamenti e dei concatenamenti che ci percorrono e che continuiamo a sperimentare.
Crediamo che in ogni luogo, in ogni lavoro, sia stata sempre, o quasi sempre, visibile una tensione a non accontentarsi di una storia già scritta, di un corpo già fatto, di un visibile già visto: abbiamo provato a mettere al mondo un mondo abitabile, potabile, nel quale fosse possibile non pensare e non pensarsi più in termini di “utilizzabili” e di funzionalità economiche.
Se volessimo rintracciare una sorta di comune denominatore che possa farci pensare ad un disegno d’insieme del nostro agire, potremmo forse immaginare che in tutti gli ambiti da noi affrontati, in tutte le esperienze che ci hanno attraversato, c’era sempre, o molto spesso, la ricerca di quella che potremmo chiamare Cosa. Infatti, le modalità che ci vengono offerte o addirittura imposte, per esempio, dalla psichiatria, ma anche dalla cultura, dal lavoro, o dall’arte, sono quelle di edifici ideologici definiti ed inespugnabili, che concorrono, ognuno con la propria forma, a definire per intero le nostre soggettività. Saperi, poteri, strategie. Allora, affrontando questi luoghi, luoghi produttori incessanti di un sapere e di una storia ad esso correlata, abbiamo iniziato, con il nostro movimento, a togliere, decostruire questi saperi, queste pratiche che, con tanta forza e tanta violenza, ci mettono al mondo. Linguaggi, cose, definizioni; attraverso l’armamentario della nostra quotidianità riceviamo quei nomi che definiscono ogni giorno la nostra essenza/assenza.
Dal nome del Padre discende tutta la generazione dei nomi e delle cose, delle funzioni e delle libertà possibili (che quelle impossibili sono innominabili!): malati, sani, omosessuali, femmine e maschi, attori, registi, schizofrenici, negri, milze, gomiti, operatori, pazienti, psichiatri, artisti, vero, falso…
Dietro o sopra tutto, dietro o sopra la coperta dei significanti, c’è un mondo che non si esaurisce con la prigione dei nomi. Si dischiude, infatti, il mondo dei significati liberi, quel mondo in cui un significante deve ancora renderli statue di sale.
Quello che c’è prima del nome. Dietro o sopra. Lo dici e l’hai già perso. Questa visione invisibile ma molto concreta, la Cosa con la quale abbiamo avuto a che fare e con la quale avremo a che fare. Attraversare la Cosa significa imbarcarsi in un sentiero oscuro attraverso il quale i nomi non ti aiutano più ed allora che appare l’abissale “altro”.
Un’ architettura quella che abbiamo messo in piedi, non un pensiero debole o postmoderno. Un’architettura per la cui edificazione ne va della nostra perdita: non siamo rimasti muti, in attesa dell’avvento di un nome, ma ci siamo messi in cammino scoprendo un campo, un tempo, uno spazio. Dentro i nomi, dentro l’istituzione, sempre a scavare come la vecchia talpa. L’abbiamo fatto attraversando tutti i livelli del rischio, imparando ogni volta, nel mentre ci si arrischiava, a sopravvivere alla visione dell’orrido. Ti ricordi del Giovanni Battista del Caravaggio? Ogni volta così, disperati diventiamo Caravaggio insanguinati. In questo sguardo tra l’attonito e il disperato, troppe volte siamo stati presi e troppe volte abbiamo rischiato di perdere la gioia necessaria all’abbandono. In questi sguardi si gioca il nostro perderci dai nomi per conquistare l’aperto materiale di un quadro con cornice. Pensiamo sia questo: portare, portarci a stare a starci nel o tra i momenti che trapassano. Non più, non ancora: senza nomi.
L’equilibrio sta proprio in questo: nello stare tra i nomi, spogliandosi di e da essi. Mai muti, ma nel silenzio degli sguardi. Ti conosco, ti riconosco, la piega della bocca, la cassa toracica che si apre e poi si richiude, fermo, segmenta, ascolta!
E la luce? Abbiamo, forse, imparato che senza imparare a riguardare una luce che ci sorprende, non ci può essere un mondo visibile e quindi abitabile. Vogliamo sorprenderci, essere presi quando meno ce l’aspettiamo, mostrarci il catalogo del visibile: fateci vedere quello che altrimenti rimarrebbe sempre muto. No, non il vero, non la Visione. Finito il tempo delle messe. Ma un altro sguardo su di te. Voglio vederti con la tua luce. La tua. E la mia. Chiunque tu sia: Bacca, Francesco, statua di sale, voglio che la luce illumini la tua voce!
Ed il tempo? Esso non diviene mai nome se non hai un orologio. Passa, passa e vedi, incominci a vedere: la visione procede da un tempo. Coraggio tu, ogni tempo ha la propria visione!
E allora? E allora la Cosa l’abbiamo solo circoscritta, la vediamo dal davanzale delle nostre azioni. Tempo, luce, corpi, non abbiamo altro che questo per non dirci con le filastrocche dei nomi, dei poteri, delle strategie. Sottraendoci senza fuggire, ci sottoponiamo ai nostri sguardi, ai nostri respiri, alle nostre musiche per imparare a camminare all’aperto. Ti vedo, mi vedi. Stop